DAL PERICOLO ALLA PRECISIONE: l'evoluzione delle misure di sicurezza nella Formula 1
- pitwallstories
- 6 set 2024
- Tempo di lettura: 4 min
Avete presente l’amaro in bocca che sentite quando realizzate che qualcosa non è andato come avrebbe dovuto? E il rammarico nel vedere davanti ai propri occhi le conseguenze di una decisione presa troppo tardi? Sicuramente avrete pensato a tante situazioni diverse, forse anche a quelle che leggerete qui oggi. Sì, perché il motorsport purtroppo è pieno di questi esempi. Mi riferisco a tutti quei casi in cui si è deciso di intervenire a danno fatto, per tentare di limitare le conseguenze, ma soprattutto per evitare che tali disastri si ripetessero.
Motorsport non è sinonimo di sicurezza. Lo sappiamo noi, lo sanno i piloti, e chiunque vi lavori. Questo però non si deve tradurre in scarico di responsabilità: nessuno è più disposto a mettere a repentaglio la propria vita e quella degli altri solo per vivere l’adrenalina della velocità. A partire dagli anni ’70, la Federazione Internazionale ha iniziato ad emanare regolamenti che imponevano misure dettate dalla necessità di aumentare il livello di sicurezza di vetture e circuiti. Quello verso la sicurezza è un percorso decisamente lungo, e continua tuttora. Parola d’ordine: consapevolezza.
Uno dei primi piloti a mostrare consapevolezza fu Jacky Ickx nel 1969 a Le Mans. Si rifiutò di partire seguendo le consuetudini dell’epoca: si attraversava a piedi la pista, per poi saltare nella vettura e partire senza perdere tempo ad allacciarsi le cinture. Reputandolo troppo rischioso, Ickx partì camminando platealmente attraverso la pista e si prese tutto il tempo per allacciare la cintura. Durante il primo giro di quella gara, John Woolfe uscì di pista e, non avendo allacciato la cintura, venne sbalzato fuori dall’abitacolo morendo sul colpo. La procedura di partenza fu totalmente cambiata dall’anno successivo. Altro episodio eclatante fu l’incidente di Niki Lauda, nel 1976, al Nurburgring (Germania): nonostante le condizioni metereologiche molto discutibili, la gara si disputò ugualmente. Lauda perse il controllo della vettura e andò a colpire i guard-rail; prese fuoco e fu persino centrato da altre due monoposto che giungevano in quel momento. Grazie all’intervento di altri piloti poté sfuggire alla morte, evidenziando, però, l’inadeguatezza dei sistemi di soccorso.
Le prime importanti svolte avvennero alla fine degli anni ‘70. Innanzitutto, i circuiti iniziarono ad essere dotati di centri medici e divenne obbligatoria anche la presenza di un elicottero. La FIA rivisitò anche i tracciati in modo da renderli più sicuri e forniti di vie di fuga (dobbiamo tenere presente che, infatti, ad essere in pericolo erano anche gli spettatori a bordo pista). Nel 1983 fu, inoltre, bandito dalle monoposto il cosiddetto “effetto suolo”, considerato troppo pericoloso per le instabili vetture dell’epoca (in breve, si sfruttava lo strato d’aria che passa al di sotto della monoposto). La diminuzione della mortalità fu anche una conseguenza della sempre maggiore importanza ricoperta dagli sponsor, soprattutto quelli televisivi, per i quali lo sport era un prodotto da vendere.
La vera e propria rivoluzione, però, avvenne dopo il week-end più nero della storia della Formula 1: il Gran Premio di Imola del 1994. Le prove libere cominciarono con l’incidente di Rubens Barrichello, fortunatamente non mortale. Roland Ratzenberger non fu altrettanto fortunato: per l’austriaco non ci fu nulla da fare. Il fine settimana si concluse anche con la scomparsa di Ayrton Senna, segnando, di fatto, la fine di un’era.

Vorrei poter dire che questa è stata l’ultima tragedia di cui abbiamo memoria ma, come sapete, non è così. Se prendiamo una qualsiasi immagine di una vettura di Formula 1 degli anni ’90, notiamo che la testa e le spalle del pilota erano lasciate molto scoperte. Oggi il problema è stato risolto grazie al Kevlar (lo stesso materiale che viene utilizzato per la produzione dei giubbotti antiproiettile). Se dal 2015, alcune parti dell’abitacolo saranno realizzate in titanio, le gomme sono state bloccate in modo da non poter schizzare via impazzite. La parte più vulnerabile del pilota è il collo: nel 2003 è stato introdotto il collare HANS (Head and Neck Support), una protezione che si attacca alla parte posteriore del casco per permettere alla testa di rimanere stabile in caso di schianto e di ridurre il rischio di fratture. Grandi novità hanno riguardato anche i caschi, soprattutto a seguito del grave incidente di Felipe Massa del 2009, quando venne colpito in viso da una molla persa dalla Brawn di Barrichello.
Analizzando le innovazioni in termini di sicurezza, non si può non pensare all’“halo” che, forse non a caso, possiamo tradurre con “aureola”: miracolo o no, ha sicuramente salvato e continua a salvare tante vite. Consiste in un sistema di protezione introdotto nel 2018: l’idea di un sistema di protezione per la testa dei piloti nasce dai tragici incidenti che hanno coinvolto Henry Surtees (F2, 2009), Jules Bianchi (F1, 2014) e Justin Wilson (IndyCar, 2015). In tutti e tre i casi, i piloti furono colpiti alla testa da oggetti volanti, riportando gravi ferite o addirittura la morte, come nel caso del pilota francese che ogni anno ricordiamo durante il Gran Premio del Giappone. Se c’è qualcuno che ha sperimentato sulla propria pelle l’importanza dell’halo è Romain Grosjean, che nel 2020 è rimasto coinvolto in un grave incidente nel Gran Premio del Bahrain: viaggia a 221 km/h quando perde il controllo della macchina e colpisce la barriera di protezione. Sono 28 i secondi che Grosjean impiegherà per uscire dall’abitacolo, un vero e proprio incubo, che però abbiamo la fortuna di poter raccontare tirando un sospiro di sollievo: se non fosse stato per il dispositivo di protezione, il pilota non sarebbe mai sopravvissuto all’impatto!

A volte, purtroppo, è necessario andare a sbattere contro qualcosa prima di capire qual è la cosa giusta da fare. È sicuramente facile parlare con il senno di poi: la percezione degli eventi da parte di chi ne è solo uno spettatore impotente non è la stessa di chi ha vissuto quei momenti. Eppure, se c’è qualcosa che queste tragedie ci insegnano, è che anche il semplice parlarne può contribuire ad evitare simili disgrazie nel futuro. Sebbene avremmo preferito che queste grandi personalità ci avessero aiutato a superare questi ostacoli con il loro contributo in vita, possiamo affermare con certezza che le loro tragiche scomparse ci hanno lasciato più risposte che interrogativi.
Non resta che ringraziarli: sì, perché se ogni weekend possiamo vivere questo bellissimo spettacolo, con la consapevolezza che il motorsport sia un mondo più sicuro, è soprattutto grazie a loro.
Scritto da Emma